Guardavo le ombre che si allungavano nella valle, il piccolo campanile di S. Anna, il Cimone, che pareva assumere, nel colore del tramonto, un aspetto più gentile ed aggraziato. Ecco l’ora che ho sempre amato, l’ora in cui il tempo sembra fermarsi ed il pensiero può rompere i limiti della realtà per abbracciare passato e futuro in un unico attimo di eterno presente. Sui prati l’erba di luglio appena tagliata; nell’aria il caldo profumo del fieno. Su quel declivio, illuminato dall’ultimo sole del giorno, affacciato come un’altana sul mondo, andavo tra me ragionando sugli ultimi eventi della mia vita, sulla scelta che avevo fatto dieci mesi prima varcando le porte dell’Accademia. Un anno era trascorso: un anno duro; tanti piccoli e grandi sacrifici, le ansietà, i timori degli esami e il pungolo dei Superiori che ci chiamavano a prove sempre più ardue. Dieci lunghi mesi erano passati, poi, finalmente, il campo! L’euforia della partenza, l’ accostarsi per la prima volta ad una vita diversa dal normale: le tende, il rancio, le marce e le esercitazioni con il bello ed il cattivo tempo. Riandai col pensiero alle vecchie fotografie, un pò sbiadite, di mio padre: care vecchie fotografie, su cui tanto avevo fantasticato quando ero bambino. Passavo lunghe ore a sfogliare gli albums, e pensavo fra me che la Patria doveva essere veramente una gran cosa, se la gente se ne andava via da casa per fare la guerra e difenderla con i cannoni. Sapevo, dai racconti di mio padre, che l’Artiglieria da montagna aveva il 75/13, ed il fatto mi dava una superiorità incontrastata tra i compagni di classe delle elementari. Bastava che qualcuno parlasse di armi, carri armati od aerei visti in qualche film di guerra, che subito facevo valere la mia superiorità buttando, con la massima disinvoltura: “Si, va bene, ma l’Artiglieria da montagna ha il 75/13”. Naturalmente i compagni ammutolivano di fronte a tanta scienza, ed io mi sentivo come uno che abbia avuto il privilegio di conoscere un grande segreto. Fantasticherie di gioventù! Entravo, a volte, furtivamente nello stanzone freddo dell’ultimo piano per aprire un baule e provarmi, davanti allo specchio, il cappello alpino di mio padre. “Andrò in Accademia” dicevo, e la mia era la sicurezza di chi si sente predestinato; credo che non mi sia mai passato lontanamente per la testa l’idea che così potesse non essere e, al momento giusto, avevo fatto domanda e avevo messo le stellette. Mi guardavo, ora, il colletto della camicia, e le vedevo queste stellette: segno tangibile della mia nuova posizione, simbolo e distintivo dei valori cui avevo deciso di dedicare la mia vita. E sentivo di amarle, sentivo che erano diventate parte viva di me: c’era, in esse, tutta la sofferenza e la soddisfazione di un anno di Accademia. Giorno per giorno esse avevano modellato il mio carattere, l’avevano reso forte e maturo: non più sogni infantili che si perdevano dietro una staffa chiara o la fotografia di un cannone, nel suggestivo fantasticare di salgariane avventure, ma la consapevolezza di una dignità nuova, la soddisfazione del superare continuamente se stessi nel sacrificio quotidiano, la luce dell’ ideale che guida e sostiene lo svolgersi del lento cammino di ogni giorno. All’improvviso il sole sparì, lentamente, e m’accorsi ad un tratto che faceva fresco; udii la voce di un compagno che cantava, là, tra le tende del primo plotone; guardai a valle, verso la Bandiera che ancora sventolava sul pennone all’ingresso dell’accampamento. Compresi ad un tratto di amare tutto ciò, profondamente. Quella vita fervida e silenziosa, i colleghi che avevo sempre avuto vicini, nei momenti belli e brutti, le tende che, a osservarle, mi riportavano indietro ogni volta alle foto dei vecchi albums di famiglia. Mi avviai lentamente verso di esse, e mi colsero a quel punto tre squilli di tromba: l’ammaina bandiera. Forse per la suggestione dei pensieri di poco prima; forse per l’atmosfera stessa del tramonto, recante nella vibrazione dell’aria le note di un sentimento che diventa silenzio assorto o sussurrata contemplazione, mi parve ad un tratto di non essere solo, irrigidito sull’attenti. Guardavo il Vessillo scendere a poco a poco, e compresi che c’erano anche loro: i nostri Caduti. Ecco cos’era quel sentimento strano, provato poco prima, e di cui non avevo saputo rendermi ragione: quel sentirli intorno, realmente presenti; erano tutti lì, a salutare la Bandiera con noi, quasi a volerci trasmettere la consegna cui essi mai vennero meno. Provavo ora una gran gioia; la vita sarebbe continuata l’indomani e domanl’altro; ci aspettava un anno di Accademia, ancora, poi Torino, la Scuola di Applicazione e infine i reparti! Quanti sogni, quanti sacrifici ancora, ma non importava: ora sapevo che tutto ciò è parte di me; e così dev’ essere perché altri ancora verranno dopo, e per uno che cade altri si alzano e prendono il suo posto, e la verità più grande è che al di sopra di tutti c’è qualcosa che non muore, qualcosa che vive nel nostro sacrificio e in esso pone le più profonde radici: è la Patria.